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ARCHEOASTRONOMIA LIGUSTICA

 

 

 

Pubblicato in: “…in purissimo azzurro veggo dall’alto fiammeggiar le stelle”, Atti del XVIII Convegno della Società Italiana di Archeoastronomia, tenutosi a Genova dal 22 al 24 ottobre 2018, Padova University Press, pp.153-161, ISBN 978-88-6938-266-6.

 

 

SULLA COPPA FOROUGHI E SUI SETTE PIANETI NEL MONDO ANTICO

Mario Codebò, Henry de Santis

 

Riassunto

La coppa Foroughi è un manufatto dell’VIII secolo a.C. di ambito culturale aramaico al cui interno sono riprodotte immagini di stelle e di costellazioni. In questo nostro studio partiamo dalle conclusioni cui erano già giunti Amadasi Guzzo e Castellani nei loro due lavori  del 2005 e 2006 ed aggiungiamo alcune ulteriori considerazioni ed identificazioni. Esponiamo poi l’ipotesi che alcune culture del Mondo Antico annoverino “sette pianeti”, escludendo la Luna ed il Sole, perché Mercurio e Venere, visibili sempre solo all’alba o al tramonto, erano forse considerati quattro pianeti diversi. Infine, proponiamo la tesi che il loro carattere malefico dipenda, come per ogni “astro nuovo”, dal fatto che alterano la sincronia del cosmo col loro moto variabile.

 

Abstract

The Foroughi cup is an artefact of the VIII century BC of Aramaic cultural context, inside which images of stars and constellations are reproduced. In this study of ours we start from the conclusions already reached by Amadasi Guzzo and Castellani in their two articles of 2005 and 2006 and we add some further considerations and identifications. We suggest the hypothesis too that some cultures of the Ancient World include “seven planets”, excluding the Moon and the Sun, because Mercury and Venus, always visible only at dawn or at sunset, were perhaps considered four different planets. Finally, we propose the thesis that their evil character depends, as for the "new stars" (novae, supernovae, comets, etc.), on the fact that they alter the synchrony of the cosmos with their variable motions.

 

 

Foto n. 1’interno della Coppa Foroughi (da Amadasi Guzzo e Castellani 2005; 2006).

 

The Foroughi Cup

La coppa Foroughi è un manufatto in bronzo, datato alla prima metà del I millennio a.C., contenente nel suo interno concavo una rappresentazione della volta celeste e sette piccolissime iscrizioni in aramaico, tre soltanto delle quali sono abbastanza leggibili: ŠMŠ = Sole (sopra la rappresentazione del Sole, all’interno del quale è incisa anche una testa di leone); ŠHR = Luna (sopra la rappresentazione della falce di Luna); ipoteticamente R’Š ŠR’ = Testa del Toro (sopra il bucranio). Le altre quattro iscrizioni sono completamente illeggibili, almeno ad occhio nudo[1].

Rimandando per la descrizione dettagliata del manufatto alle due pubblicazioni citate di Amadasi e Castellani, qui descriviamo soltanto le nostre interpretazioni differenti e qualche nuova ipotesi.

La posizione periferica e simmetrica dei due “carri” attorno al polo nord celeste, come rappresentato nella coppa, cominciò già a verificarsi nel III millennio a.C. Nello stesso periodo, e fin dal IV millennio a.C., l’equinozio di primavera, il solstizio d’estate, l’equinozio di autunno ed il solstizio d’inverno si verificavano rispettivamente in Toro, Leone, Scorpione ed Acquario, cioè nelle costellazioni che Amadasi e Castellani (Amadasi Guzzo e Castellani 2005: 16 – 17; 2006: 5 – 7) identificano con i segni incisi a destra, sopra, a sinistra e sotto il personaggio centrale incedente, con copricapo e bastone. Nello stesso periodo il polo nord celeste era contenuto nella costellazione del Drago, le cui stelle ι, α e κ furono, in tale successione, “stelle polari” nel periodo 5320 – 660 a.C. (Meeus 2009: 358). Il MUL.APIN I,i,19 identifica α Draconis (Thuban) con The Hitched Yoke, the Great Anu of Heaven (il giogo fisso, il grande Anu del cielo) (Hunger e Pingree 1989: 24; 137 e passim). Il personaggio centrale incedente può quindi coerentemente essere identificato:

1)      astronomicamente con il polo nord celeste e la stella della costellazione del Drago che lo segnava all’epoca;

2)       mitologicamente con An/Anu, il primordiale dio sumerico del cielo, che, con Enlil, dio sumerico della Terra ed Enki (in accadico Ea), dio sumerico delle acque sotterranee, reggeva uno dei tre sentieri celesti in cui è suddiviso il cielo secondo il MUL.APIN[2].

Ricordiamo che nella più tarda epoca babilonese il drago[3] diventerà anche il simbolo di Marduk, dio di Babilonia e signore degli dei secondo l’Enuma Eliš. In quest’ultimo periodo la stella polare s’identificava approssimativamente con κ Draconis.

Il capride sotto i piedi del personaggio incedente può facilmente essere identificato con Enzu Gula (la capra femmina) che Hunger e Pingree identificano con la costellazione della Lyra (Hunger e Pingree 1989: 138) in MUL.APIN I,i,24.

Il pesce a sinistra del personaggio incedente “potrebbe forse” identificarsi, per la forma e per il numero di sette stelle che lo formano, con la moderna costellazione del Boote, che il MUL.APIN I,i,12 identifica con ŠU.PA = Enlil (Hunger e Pingree 1989: 21; 137). Si tratta però di una pura congettura.

Analogamente per congettura, il “babbuino egittizzante” (Amadasi Guzzo e Castellani 2005: 18; 2006: 7) tra Toro e Leone potrebbe forse rappresentare i moderni Gemelli, che il MUL.APIN 1,i,5 – 6 identifica con Lugalgirra e Meslkamtaea – i grandi gemelli: α Geminorum (Castore) e β Geminorum (Polluce) – e con Alamuš e Nin-EZENxGUD – i piccoli gemelli: ζ (Alzirr) e λ Geminorum – (Hunger e Pingree 1989: 19: 137).

Invece la rappresentazione all’interno della Luna, descritta in Amadasi Guzzo e Castellani 2006: 16 come <…un personaggio in trono davanti ad un altare sul quale brucia un’offerta…>, benché successivamente definita <…non più decifrabile…> (Amadasi Guzzo e Castellani 2006: 5-6) può forse identificarsi con il dio sumerico delle acque sotterranee Enki/Ea che, nel MUL:APIN I,ii,20, è chiamato The Great One, Ea; the star of Eridu, Ea, a sua volta identificato con la moderna costellazione dell’Acquario (Hunger e Pingree 198,9: 35, 138).

Ma il vero problema irresolubile sono la posizione delle due costellazioni identificate con le Pleiadi – tra Scorpione ed Acquario – e con la Corona Boreale – tra Acquario e Toro – (Amadasi Guzzo e Castellani 2005: 17; 2006: 7) perchè, in realtà, le Pleiadi sono prossime al Toro (di cui oggi fanno parte) e la Corona Borealis è opposta ad esso. Non è neppure possibile identificare la corona di undici stelle, rappresentata sulla Coppa Foroughi, con la costellazione della Corona Australe perché anch’essa è lontana dal Toro, benché allora ben visibile nel cielo meridionale della Mesopotamia[4].

Senza molta convinzione si può osservare che il gruppo delle Iadi, formanti il muso del Toro, è definito nel MUL.APIN I,ii,1 The bull of Heaven, the Jaw of the Bull, the crown of Anu (Hunger e Pingree 1989: 30). E’ un po’ strano, però, che il muso del Toro sia rappresentato due volte nella Coppa Foroughi: una volta come bucranio ed una come corona.

Nel MUL.APIN (Hunger e Pingree 1989: 30; 68) le Pleiadi sono rappresentate:

1)      come gruppo a sé stante, non facenti parte del Toro: “The Stars, the seven gods, the great gods” (I,i,44) ed immediatamente precedenti le Iadi: “ the Bull of Heaven, the Jaw of the Bull, the crown of Anu” (I,ii,1);

2)      la prima delle diciotto costellazioni che la Luna percorre in un mese (I,iv,33).

Tuttavia non sono mai state tra Acquario e Scorpione, come rappresentate nella Coppa Foroughi, e neppure a est di Orione, come rappresentate nella tavoletta seleucide di Uruk conservata al Museo di Pergamo (Pettinato 1998, tav. XI). Ne consegue che la loro reale posizione nel cielo doveva essere, nell’iconografia, in qualche modo subordinata a qualche altro significato simbolico che ci sfugge.

Più in generale, dobbiamo concludere che la Coppa Foroughi, pur parzialmente interpretabile, non rappresenta evidentemente una “fotografia” del cielo del tempo.

 

I sette pianeti

Amadasi e Castellani propongono, non senza avanzare dubbi, d’identificare le tre stelle con otto cuspidi e le due con quattro cuspidi con i cinque pianeti <…che, con il Sole e la Luna completano la serie dei sette “pianeti” noti al mondo antico…> (Amadasi Guzzo, Castellani 2006: 7). Tuttavia non sempre il mondo antico annovera il Sole e la Luna tra i sette pianeti, cioè tra gli astri erranti[5] perché di declinazione variabile. Il MUL.APIN (Hunger e Pingree 1989: 70-71; 80; 146), per esempio, ne cita soltanto cinque:

1)      II,i,1 – 8: dUTU – Šamas (il Sole); Sagmegar – dŠulpaea dAMAR.UTU (Giove); Dilibat (Venere); Salbatānu (Marte); UDU.IDIM.GU4.UD – ša Ninurta šumšu (Mercurio) e UDU.IDIM.SAG.UŠ – Zibanītu – MUL.dUTU (Saturno) <…travel the (same) path the Moon[6] travels…> e <…Together six gods who have the same position, who touch the stars of the sky and keep changing their position…>;

2)      II,i,38 – 40 <…Jupiter, Venus, Mercury, whose name is Ninurta, Mars, Saturn, [also called] “the Scales” (or) “Star of the Sun”. [These are the gods (?) who] keep changing their position and their glow…>.

In altre culture invece i pianeti sono chiaramente distinti da Sole e Luna.

Il cap. VIII del testo pahlavico Le decisioni della ragione celeste[7] (Bausani 1957: 99; 103 – 104) recita: <…Ogni forma e avversità che giungano all’uomo o alle altre creature, giungono loro dai sette o dai dodici. I dodici segni dello Zodiaco sono, come ci insegna la religione, dodici generali al fianco di Ôhrmazd, mentre i sette pianeti sono chiamati sette generali a fianco di Ahriman. Questi sette pianeti violentano tutte le creature e le consegnano alla mortalità e a ogni afflizione. E dai sette pianeti e dai dodici segni dello Zodiaco dipendono la sorte e il governo del mondo…>.

Nel cap. XII si precisa ulteriormente <…E il creatore Ôhrmazd, allora, diede in possesso del Sole e della Luna e di quei dodici segni zodiacali, che nella religione sono chiamati “i dodici generali”, tutto il bene di questo creato ed essi lo accettarono da Ôhrmazd per distribuirlo giustamente e secondo i meriti. Allora Ahriman creò i sette pianeti – detti anche i sette generali di Ahriman – per sottrarre quella bontà alla creazione di Ôhrmazd, in avversione al Sole, alla Luna e ai dodici segni dello Zodiaco. E ogni bene che quegli astri donano in sorte alla creazione di Ôhrmazd, quei pianeti, per quanto possono, glielo tolgono e lo danno alla magica potenza dei demoni, agli spiriti mentitori e ai malvagi…>.

Già nella prima metà del I millennio a.C. il Libro dei vigilanti, il primo dei cinque testi apocrifi giudaici attribuiti al patriarca Enoc (Sacchi 2013: 495 – 496; 498), aveva sottolineato due volte la perniciosità dei “sette pianeti”:

1)      XVIII, 13 – 16 <…E vidi una cosa terribile: colà sette stelle come grandi montagne ardenti e come spirito che m’interrogava. E l’angelo mi disse: “Questo è il luogo della fine del cielo e della terra. E’ la prigione delle stelle del cielo e dell’esercito celeste. Le stelle che si rotolano sul fuoco, e queste, sono quelle che hanno trasgredito l’ordine del Signore fin da prima del loro sorgere perché non sono arrivate al tempo (stabilito per) loro. E (il Signore) si è adirato contro di esse e le ha imprigionate fino alla fine (assoluzione?) del loro peccato (la quale cadrà?) nell’anno del mistero…>;

2)      XXI, 3 – 6: <…E colà vidi sette stelle del cielo legatevi sopra, insieme, come grandi montagne e come fuoco ardente. Allora io dissi: “Per quale peccato sono state legate? E perché sono state gettate qui? Ed Uriele, uno degli angeli santi, quello che era con me e mi guidava, mi disse: “O Enoc, perché domandi, t’informi, chiedi e ti preoccupi? Quelle sono, di fra le stelle, quelle che trasgredirono l’ordine di Dio altissimo e sono state legate qui fino a che si compiano diecimila secoli, il numero (cioè) dei giorni (della pena) del loro peccato…>.

Dalle citazioni sopra riportate si evince chiaramente che:

1)      Luna e Sole non sono considerati pianeti (dei quali, per altro, non hanno neppure le sembianze, essendo questi ultimi piuttosto puntiformi come le stelle fisse ed i primi invece dischi con un diametro sensibile di circa 0°31’ per entrambi, sia pure con modeste variazioni temporali).

2)      I pianeti però sono sette. Escludendo dal loro novero Luna e Sole per la loro forma a disco e considerando che Urano è, in certi periodi della sua orbita, al limite della visibilità ad occhio nudo quando raggiunge la magnitudine +5,7[8] mentre Nettuno non è mai visibile ad occhio nudo a causa della sua magnitudine +7,75 (Ferreri 2013: 103; 113), l’unica soluzione possibile è che Mercurio e Venere, che non sono mai visibili tutta la notte ma soltanto per un certo tempo dopo il tramonto o prima dell’alba[9], fossero considerati quattro pianeti diversi: due al mattino e due alla sera. Con l’aggiunta di Marte, Giove e Saturno, visibili tutta la notte, si ottengono i sette pianeti del mondo antico. Deve esserci stato certamente un periodo, presumibilmente molto antico, in cui Mercurio e Venere all’alba ed al tramonto erano considerati realmente quattro pianeti diversi e solo successivamente ci si rese conto che in realtà sono gli stessi. In ogni caso, alla data di compilazione del MUL.APIN nella prima metà del I millennio a.C., era già noto, almeno in ambito mesopotamico, che i pianeti sono cinque: I,i,38 e I,ii, 13 – 16 (Hunger e Pingree 1989: 29; 33 – 34; 137 – 138; 146 – 150).

3)      L’ebraismo ed il mazdeismo annoverano i pianeti – ma non il Sole e la Luna – tra gli astri malefici. (Bausani 1957: 99; 103 – 104; Sacchi 2013: 495 – 496; 498). Il motivo è evidentemente il loro moto autonomo tra le stelle fisse, visto come una violazione delle leggi celesti (Sacchi 2013: 495 – 496; 498). Poiché però ciò non avviene nella religione sumero-babilonese, è possibile che i monoteismi ebraico e mazdaico abbiano enfatizzato la demonizzazione dei pianeti anche proprio in quanto divinità politeiste mesopotamiche.

 

CONCLUSIONI

Nella coppa Foroughi, oltre alla rappresentazione della situazione precessionale nel IV e III millennio a.C., si possono identificare con alta probabilità altre due costellazioni, oltre a quelle già proposte da Amadasi Guzzo e castellani nei loro articoli del 2005 e 2006:

1)      il personaggio centrale incedente, con mazza e copricapo, come la costellazione del Drago, simbolo sia di An/Anu che di Marduk e sede del polo nord celeste del tempo;

2)      il capride con Enzu Gula, la capra femmina, ossia con Vega, la stella α della Lyra.

Le altre interpretazioni sono assai meno probabili e, soprattutto, la posizione di Pleiadi e Corona Boreale o Australe è del tutto differente dalla realtà.

I sette pianeti non potevano che essere Mercurio e Venere, visibili solo all’alba ed al tramonto, come quattro pianeti, cui si aggiungevano Marte, Giove e Saturno visibili tutta la notte. La variabilità della loro declinazione, a differenza di quella relativamente fissa di tutte le altre stelle, costituiva una perturbazione/violazione delle leggi celesti imposte dal Dio unico ebraico e mazdaico e ne faceva quindi dei démoni ribelli.

Se poco di più c’è probabilmente da dire sui sette pianeti, riteniamo invece che un’accurata indagine sui testi astrologici ed astronomici sumero – babilonesi possa condurre ad ulteriori identificazioni nel simbolismo della Coppa Foroughi.

 

RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano tutti coloro che hanno contribuito in qualsiasi modo a questo articolo ed in particolare: il DIRAAS dell’Università di Genova, il sig. Silvano Di Corato, la prof.ssa Rosa Ronzitti.

 

BIBLIOGRAFIA

Amadasi M.G., Castellani V. (2005) “La Coppa Foroughi: un atlante celeste del I millennio a.C.”, Giornale di Astronomia, n. 31, 1, pp. 14 – 18, SAIt, Italia.

Amadasi M.G., Castellani V. (2006) “La Coppa Foroughi: un atlante celeste del I millennio a.C.”,

Rivista Italiana di Archeoastronomia, IV, pp. 1 – 8, SIA, Italia.

Bausani A. (1957) “Testi religiosi zoroastriani”, Catania.

Buscherini S. (2018) “Draghi, serpenti, ippopotami e coccodrilli: la costellazione del Drago nella tradizione egizia e mesopotamica”, Giornale di Astronomia, n. 44, 3, SAIt, Italia.

Ferreri W. (2013) “L’osservazione dei pianeti”, Milano.

Hunger H., Pingree D. (1989) “MUL.APIN: an Astronomical Compendium in Cuneiform”, Archiv für Orientforschung, 24.

Meeus J. (2009) “Mathematical Astronomy Morsels V”, Richmond, Virginia, USA.

Pettinato G. (1998) “La scrittura celeste”, Milano.

Sacchi P. , a cura di…(2013) “Apocrifi dell’Antico Testamento”, Novara.

Toomer G.J. (1998) “Ptolemy’s Almagest”, Princeton, New Jersey, USA.

 

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[1] In mancanza di prove contrarie, riteniamo sussista la possibilità di leggerle e tradurle mediante microscopio.

[2] Approssimativamente, il sentiero di An/Anu conteneva le stelle della fascia tropicale; il sentiero di Enlil quelle della fascia temperata boreale; il sentiero di Enki/Ea quelle della fascia temperata australe.

[3] Per una sintetica discussione sul ruolo della costellazione del Drago nella mitologia dell’antico Egitto e dell’antica Mesopotamia si veda Buscherini 2018: 5 – 10.

 

[4] Tolomeo la cita nel suo Almagesto del II secolo d.C. (Toomer 1998: 397-398).

[5] Πλανήτης, dal verbo πλανάω = faccio errare; erro.

[6] Il nome della Luna nel MUL.APIN è dSin (Hunger e Pingree 1989: 146).

[7] Menog-i Khrad. Testo pahlavi ed inglese in http://www.avesta.org/mp/mx.html.

 

[8] Il limite della magnitudine apparente visibile ad occhio nudo è circa +6.

[9] Mercurio resta visibile per circa un’ora. Venere può essere visibile anche per tre – quattro ore.