(il testo risulta non pubblicato dalla redazione)
 
 

Genova, 23/01/2000

Spett. Redazione
L'ASTRONOMIA
Edizioni Media Press s.r.l.
Via Nino Bixio 30
20129 Milano

Desidero proporre alcune considerazioni ispiratemi dall'articolo di A. Gaspani "I simboli solari dei Camuni", pubblicato sulla Vs. rivista n. 205 del 01/2000.
 

A) Le "prove" materiali di osservazioni astronomiche nella preistoria.

Mi pare innanzi tutto indispensabile esporre alcune critiche e confutazioni alle supposte "dimostrazioni" prodotte da Alexander Marshack sulle osservazioni astronomiche nel paleolitico superiore, perché troppo frequentemente esse sono presentate come certe dagli archeoastronomi di formazione astronomica, mentre nell'ambiente archeologico (in cui opero) esse sono valutate con prudenza molto maggiore.
Il testo base degli studi di Marshack è la sua pubblicazione "Notation dans les gravures du paléolithique supèrieur. Nouvelles méthodes d'analyse", pubblicato su Memoire n. 8, anno 1970, dell'Institut de Préhistoire de l'Université de Bordeaux, in cui Egli esamina sei reperti (cinque d'osso ed uno di pietra, di cui tre aurignaziano-perigordiani (sic!) e tre maddaleniani) recanti le supposte notazioni lunari.
Premesso che è sempre un errore presentare figure, fotografie e disegni senza la scaletta centimetrica di riferimento (e nel testo citato tutte le illustrazioni ne sono prive!), l'Autore analizza al microscopio binoculare le incisioni millimetriche dei sei manufatti, già per se stessi piccoli (lunghezze comprese tra il minimo di cm. 10 delle placchette ossee dei ripari Artet e Blanchard ed il massimo di cm. 35 del "bastone di comando" della grotta di Placard). Addirittura, l'osso del riparo Blanchard presenta delle incisioni semilunate (la più grande di mm. 1,7; una delle più piccole di mm. 0,5) le cui differenti forme richiedono lente d'ingrandimento e/o microscopio binoculare per essere apprezzate nella loro varietà. Se certamente quest'ultimo tipo di analisi è un esame consolidato per studiare nel dettaglio la tecnica d'incisione, il fatto stesso che debba essere usato, in luogo dell'occhio nudo, anche per apprezzare le differenze dei segni incisi - rappresentazione delle differenti fasi lunari nell'ipotesi di Marshack - rende questa ipotesi assai poco plausibile, a meno che non vogliamo supporre che l'uomo di Cro-Magnon usasse lenti e/o microscopi binoculari per incidere i suoi calendari (e tralascio, per brevità, ulteriori considerazioni).
Osservazioni astronomiche (in senso lato) venivano certo fatte nel paleolitico (altrimenti non avrebbe potuto verificarsi la fioritura neolitica e calcolitica degli allineamenti, che presuppone lunghe osservazioni antecedenti, come lo sviluppo dell'astronomia alle soglie della storia ha implicato i millenni di osservazioni della protostoria), ma le "prove" di Marshack sono troppo deboli per essere considerate tali.
E' curioso notare come gli archeoastronomi di formazione astronomico-matematica siano giustamente rigorosi e severi nelle applicazioni degli algoritmi di calcolo e nelle tecniche di misurazione, ma cadano poi in ingenue semplificazioni archeologiche, dimenticando che la stessa rigorosità metodologica va applicata ad entrambe le discipline.
Non mi pare, per ciò, condivisibile l'entusiasmo che G. Cossard riserva alle ipotesi di Marshack nel capitolo "Ossi di luna" del suo pur pregevolissimo libro "Le pietre ed il cielo" del 1993:
1) è da dimostrare che la nascita di un bimbo richiedesse di tenere conto dei cicli lunari: siamo noi che oggi contiamo il tempo tra il concepimento e la nascita, ma a quell'epoca ve n'era bisogno? Il bimbo nasceva comunque quando era il suo momento e la nascita era probabilmente ancora qualcosa di prodigioso per quelle popolazioni, visto che la gravidanza era comunemente ritratta in quegli idoletti che noi chiamiamo "veneri paleolitiche".
2) Non si vede perché gli eventuali ossi calendariali dovessero essere "...comodamente trasportabili...". Questa affermazione nasce forse da un malinteso nomadismo delle popolazioni del paleolitico superiore. I dati paletnologici attualmente in nostro possesso sembrano propendere più per spostamenti per caccia e raccolta di vegetali entro uno spazio limitato ad alcune decine di chilometri, con riutilizzo stagionale degli stessi ripari, che per sistematiche migrazioni continentali.
3) Circa l'opportunità di incidere segni (che quindi devono essere, nel caso, facilmente leggibili) di conto di dimensioni microscopiche, ho detto sopra.
4) Non si possono confrontare probatoriamente ossa europee di 20000-30000 anni BP con altre del 6500 a.C. (per di più congolesi): appartengono a due orizzonti culturali totalmente diversi, separati da migliaia di anni e di chilometri di distanza. Tale confronto può essere solo indiziario.
5) I paralleli tra i dati  della paletnologia (relativa ai popoli preistorici) e quelli dell'etnologia (relativa ai popoli "primitivi" contemporanei) sono solo indicativi, non probatori. Diversamente, non avremmo più bisogno di studiare le antiche culture materiali: ci basterebbe osservare i costumi delle popolazioni "primitive" contemporanee. Purtroppo per noi, anche queste ultime hanno subito processi evolutivi (o involutivi), pur nel loro peculiare orizzonte culturale.
6) Che le incisioni avessero fini pratici e non semplicemente decorativi è cosa accettata, ma nelle popolazioni preistoriche il senso del "pratico" è diverso dal nostro: per es., anche la "magia" (per propiziare la caccia, ecc.) ha una funzione pratica dal punto di vista del "primitivo". Attenzione quindi ad identificare il pratico con il concreto! Ed in ultima analisi, dobbiamo prudentemente riconoscere che, al di là della cultura materiale e delle deduzioni e congetture che essa ci consente, noi non conosciamo praticamente nulla (e probabilmente non potremo mai conoscere quasi nulla!) della cultura spirituale ed intellettuale dei popoli preistorici. Ciò diventa possibile solo quando ci restano le testimonianze scritte dai contemporanei, ma ciò avviene solo, per definizione, in epoca storica.
7) Perciò ha ragione Cossard quando dice che "...Non si deve giudicare sulla base delle nostre conoscenze il comportamento dell'uomo primitivo...", ma questo aureo principio va applicato a tutti gli aspetti della preistoria, non solo a quelli che ci risultano utili per avvalorare tesi amate o smentirne altre. In altri termini: il metodo scientifico d'indagine va applicato senza preconcetti a tutti gli elementi oggetto d'indagine. Altrimenti si può andare incontro a inaspettate sorprese, come credere che la forchetta sia "...una raffinata produzione della società europea di circa mille anni fa..." e scoprire poi che invece era ben nota ai Romani, come dimostra il set di posate "da viaggio" in argento (comprendente cucchiaio, coltello, forchetta e due altri strumenti) trovato negli strati romani di Albintimilium (la moderna Ventimiglia). Anzi, tale set di posate, tutte tra loro incernierate, è del tutto simile a quelli usati ai giorni nostri dagli escursionisti, a dimostrazione di quanto gli antichi potessero essere moderni, contro le nostre aspettative.
Per concludere: le "prove" addotte da Marshack sono, a parere mio (e non solo mio), troppo deboli per essere considerate veramente tali. E' molto probabile e quasi ovvio che tali osservazioni venissero fatte (ma perché poi solo nel paleolitico superiore e non anche in quello medio? L'uomo di Neanderthal, con un volume endocranico medio di 1600 cc - uguale ,se non superiore, a quello di 1500 cc medi del Cro- Magnon - aveva tutti i requisiti fisiologici per sviluppare un'analoga attenzione alla natura che lo circondava), ma le "prove" concrete, reali ed indiscutibili - ossia "probanti" -  devono ancora essere trovate.
Anche dal punto di vista statistico, pochi manufatti non sono sufficientemente probatori: ne occorre almeno un campione statisticamente significativo. E considerando l'enorme sviluppo che la cultura Cro-Magnoide ha avuto in Europa e nel Vicino Oriente, si dovrebbero trovare almeno migliaia di pezzi riportanti segni calendariali, se veramente tali osservazioni venivano registrate.
In questo senso, un sito privilegiato ove cercare potrebbero essere proprio le grotte dei Balzi Rossi: sia perché furono abitate pressoché ininterrottamente dal paleolitico inferiore; sia perché uno dei manufatti studiato da Marshack proviene dalla Barma Grande; sia perché nel 1970 il Dott. G. Vicino vi scoprì, sulle pareti, migliaia di incisioni lineari (in particolare nel Riparo Mochi, nella Barma Grande e nella Grotta del Caviglione). Un'indagine informatizzata potrebbe mostrare se tra esse vi sono o meno dei raggruppamenti astronomicamente significativi (ad es. di 7 per il succedersi delle fasi lunari, di 29-30 per il mese sinodico, di 18-19 per la rotazione dei nodi dell'orbita lunare, di 365 per l'anno solare, ecc.).
 

B) Il simbolo teomorfo dei Camuni.

Questo petroglifo è stato oggetto di uno studio biennale da parte mia e di altri cinque ricercatori (P. Barale, M. Castelli, H. De Santis, L. Fratti, E. Gervasoni), presentato al Valcamonica Symposium 1999 e pubblicato in Italiano nei pre-atti ed in Inglese negli atti definitivi (questi ultimi in corso di stampa).
Le conclusioni cui siamo giunti sono diverse da quelle di Gaspani. Purtroppo con Adriano, pur avendo sempre reciprocamente letto i rispettivi lavori, ci siamo conosciuti personalmente solo una settimana prima dell'inizio del simposio, alla presentazione, in Val Camonica, del libro di G. Brunod, W. Ferreri e G. Ragazzi "La rosa di Sellero e la svastica". Perciò, né io ho potuto citare il suo lavoro nel mio, né Lui ha potuto fare altrettanto con il mio.
Anche noi riteniamo il petroglifo un simbolo astronomico, ma non di una cometa.
A nostro parere si tratta di una rappresentazione dei tre punti di tramonto del sole, visti dal Capitello dei Due Pini sul profilo dell'antistante Concarena, ai solstizi ed agli equinozi.
Il nostro ragionamento è partito dalla considerazione che Pizzo Badile (a E) e Concarena (a W) dovevano essere, per vari motivi, montagne sacre per gli antichi Camuni (crf. anche C. Beretta "Toponomastica in Valcamonica e Lombardia", Edizioni del Centro Camuno Studi Preistorici, Capo di Ponte, 1997, p. 68), rappresentanti l'uno il principio maschile e l'altra il principio femminile (come, rispettivamente, il Monviso e la Bisalta nel Cuneese). Per di più, in particolari condizioni atmosferiche di forte umidità, si vedono proiettati nel cielo l'ombra del Pizzo Badile poco prima del sorgere del sole (quello che A. Priuli definisce giustamente lo "spirito della montagna") ed una raggiera di luci ed ombre dietro la Concarena poco dopo il tramonto. Ciò si verifica prevalentemente intorno agli equinozi e costituisce uno spettacolo impressionante, come abbiamo potuto constatare di persona.
Il sito (detto "località Plas") ha tutte le caratteristiche del luogo sacro (pagano) d'altura: è stato frequentato fin dal III millennio a.C. (alcune incisioni sono dell'Età del Ferro e del Medioevo); è in posizione ampiamente panoramica sul fondovalle sottostante; presenta un piccolo riparo sotto-roccia (il cui crollo, in epoca post-calcolitica, ha sigillato in situ l'eventuale stratigrafia); è stato successivamente cristianizzato (attualmente vi sorge una cappelletta).
Da esso, Pizzo Badile, versante est della valle e alba sono invisibili, mentre si gode una visione completa (> 180°) del versante vallivo occidentale, della Concarena e del tramonto del sole durante tutto l'arco dell'anno. In particolare, il tramonto equinoziale avviene proprio di rimpetto (in una sella apparente tra la vetta della Concarena a S ed il M. Elto a N), quello solstiziale invernale più a sud (dietro una punta caratteristica sulle pendici meridionali della Concarena) e quello solstiziale estivo più a nord (esattamente dietro la vetta del M. Elto). Misure effettuate nei giorni specifici con lo squadro sferico a lettura diretta di 5 primi centesimali (5c), hanno mostrato che, per la particolare conformazione del profilo dell'orizzonte visibile, le amplitudini occase del sole sono, rispettivamente, W34,5°S e W27,8°N. Tali valori corrispondono abbastanza bene agli angoli tra i tre fasci di "raggi" del petroglifo: 32° (fascio centrale e fascio di sinistra guardando) e 28,5° (fascio centrale e fascio di destra guardando). Abbiamo perciò ipotizzato che l'antico artista, dopo avere contemplato i tre tramonti (avendo quello del solstizio invernale alla sua sinistra e quello del solstizio estivo alla sua destra), si sia voltato riproducendo schematicamente sulla roccia quanto osservato e mantenendo così l'angolo maggiore alla propria sinistra e quello minore alla propria destra.
Per individuare i punti e riprodurli mantenendo le proporzioni angolari, bastava collocare quattro pali "a ventaglio" o "a settore circolare": uno nel punto dell'osservazione e tre, a distanza di qualche metro, in corrispondenza dei tre punti di tramonto citati. Avvolgendo poi delle corde intorno ai quattro pali e riducendo progressivamente l'intera struttura, si poteva ottenere un "ventaglio" o "settore circolare" di minime dimensioni in cui però le proporzioni erano mantenute. Le lunghezze delle corde tra i pali fungevano da unità di misura (per le "unità di misura" dell'uomo megalitico, si veda in F. Mezzena "La Valle d'Aosta nel quadro della preistoria e protostoria dell'arco alpino centro-occidentale" , in: Atti della XXXI riunione scientifica dell'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 1997, pp. 79-80, 121-122).
Il fatto che il versante orientale della valle e l'alba siano invisibili per ragioni geomorfologiche e che generalmente i raggi rivolti in basso simboleggino il sole al tramonto, ci ha indotto a scartare l'ipotesi che il petroglifo rappresenti l'alba, il mezzogiorno ed il tramonto quotidiani. In questo senso potrebbero interpretarsi i due cerchi più piccoli a lato del cerchio maggiore raggiato, ma ci pare più probabile che essi possano rappresentare l'oscillazione apparente della luna intorno al sole, dovuta all'inclinazione media di 5°09' della sua orbita sull'eclittica. In particolare, potrebbero simboleggiare le due stazioni estreme (settentrionale e meridionale) che l'astro notturno raggiunge ogni 6798 giorni (6793 in Zagar "Astronomia sferica e teorica", Zanichelli, 1984, p. 236) per effetto della rotazione retrograda dei suoi nodi, ma anche le stazioni che essa raggiunge ogni mese di ogni anno.
Questa nostra convinzione sul significato solare del petroglifo teomorfo in particolare, e del Capitello dei Due Pini in generale, si è rafforzata quando abbiamo visto gli ultimi raggi del sole, pochi minuti prima del tramonto al solstizio d'estate, illuminare il sole raggiato inciso sulla parte superiore del Capitello e lasciare in ombra tutte le figure sottostanti (pugnali, solchi, alabarde, cervide). Quest'ultimo fenomeno si accorda bene con la tripartizione simbolica delle statue-stele camune in mondo celeste, mondo terreno e mondo sotterraneo proposta da Anati.
Una ulteriore sorpresa è stato vedere i campi del sottostante fondovalle arati con più solchi paralleli a forma di U (li abbiamo fotografati), come rappresentato nel petroglifo teomorfo delle stele di Caven 3, Cornal, Borno 1, Ossimo 2 lato C e di altri siti. G. Brunod cita e riproduce fotograficamente lo stesso modo di arare i campi di grano in Spagna (G. Brunod "Massi incisi in Valcamonica", Quaderni di Natura Nostra, 1997, p. 58).
Ci è parso quindi di poter pervenire alla seguente ipotesi:
il petroglifo teomorfo simboleggia l'irraggiamento del sole sulla terra arata nel corso dell'anno, dal solstizio d'inverno al solstizio d'estate attraverso gli equinozi, ed il concomitante moto apparente della luna (o "danza della luna". Crf. G. Brunod, W. Ferreri, G. Ragazzi "La rosa di Sellero e la svastica", in: I Quaderni di Natura Nostra n. 11, Savigliano, 1999, parte V; G. Cossard "Le pietre ed il cielo", ed. Veco, Cernobbio, 1993, p. 83) attorno al sole; ossia la benefica fecondazione della Terra da parte del Cielo (crf. Esiodo "Teogonia", vv. 126-206), indispensabile per la sopravvivenza dell'uomo.
Riteniamo che tale ipotesi abbia una sua coerenza interna ed una sua validità per la località camuna di Plas, perché spiega quanto ivi osservato, ma non siamo in grado di dire se è applicabile anche alle altre località in cui il petroglifo teomorfo è rappresentato: occorrerebbe controllare se in esse vi sono le medesime condizioni di visibilità del moto del sole sull'orizzonte. Sfortunatamente l'ubicazione dei siti esatti delle stele valtellinesi pare essere perduta e con essa la possibilità di verifica.
Tornando allo scritto di Gaspani, non sono del tutto d'accordo sull'affermazione che la rozzezza relativa del petroglifo di località Plas renda probabile la sua maggiore antichità (e, di conseguenza, la sua fedeltà all'evento astronomico originario). Molti reperti preistorici dimostrano semmai il contrario: in un determinato orizzonte culturale le forme artistiche più elaborate corrispondono generalmente a fasi più precoci e quelle più rozze a fasi più tarde, perché caratterizzate, queste ultime, da processi involutivi e di decadenza. E' quanto si riscontra, per esempio, nelle statue-stele della Lunigiana e nella necropoli calcolitica di S. Martin de Corleans (le cui fasi finali sono caratterizzate da tombe piccole e pochissimo elaborate. Crf. F. Mezzena, op. cit.).
Anche la presenza in luoghi e culture geograficamente diversi di un identico manufatto (nel nostro caso una figura) non deve necessariamente far pensare a eventi eccezionali, ma è più semplicemente spiegata, usualmente, con la ben nota e provata rapida diffusione delle idee e dei prodotti nella preistoria. Ne sono esempi: i manufatti  neolitici in pietra verde del Complesso di Voltri, lavorati in loco quasi industrialmente e trasportati oltre le Alpi; l'ambra e l'ossidiana, diffuse in tutta Europa da ben precisi punti d'origine attraverso capillari reti commerciali; la statua-stele lunigianese trovata nella valle dell'Adige; la rapidissima diffusione europea del bronzo prima e del ferro poi; ecc. Al contrario, certe produzioni non uscirono mai dal loro ristretto ambito geografico d'origine (come accadde alla cultura perigordiana).
Il Dott. Angiolo Del Lucchese, funzionario della Soprintendenza Archeologica della Liguria, dà questa spiegazione anche per l'innegabile similitudine delle statue-stele di Aosta e di Sion. Personalmente aggiungo che nel III millennio a.C. le condizioni climatiche avevano arretrato i ghiacciai ben più di oggi e quindi le comunicazioni tra i due versanti alpini erano più agevoli. E' quindi la presenza di maestranze itineranti (come accadrà nel medioevo, per esempio con i maestri cosmateschi), con modelli forse fissi e ripetitivi, anche di derivazione astronomica, la spiegazione attualmente più accreditata della presenza di analoghi reperti in luoghi e culture diverse.
 

C) Alcuni esempi di "errori" comuni in archeoastronomia.

Nella piena consapevolezza che certamente qualcuno potrà trovarne nei miei lavori, ritengo utile mostrare qualche esempio di errori fra i più comuni in archeoastronomia, nella speranza che ciò induca ad una più approfondita codificazione di questa disciplina.
Uno degli errori più comuni commessi dagli archeologi è quello di non orientare le mappe di scavo con metodi astronomici. Poiché lo scavo stratigrafico è distruttivo, ciò porta alla perdita potenziale di dati. Due esempi di area ligure lo illustrano bene.
In occasione del mio studio sugli orientamenti della necropoli romana di Isasco (SV) (in corso di stampa sugli atti del Convegno S.A.It. di Storia dell'Astronomia del 1998), ho avuto la possibilità di visionare le piante dell'ultima campagna di scavo. In quella provvisoria, l'orientamento degli assi cardinali differiva con il reale di circa +1°, mentre in quella definitiva l'errore diventava di ben -7,5°, pur essendo i rapporti intrinseci tra le strutture esattamente riprodotti.
Analogamente, due diverse piante della medesima necropoli del Priamar (SV) - pubblicate sul libro di C. Varaldo "Archeologia urbana a Savona: scavi e ricerche nel complesso del Priamar", ed. I.I.S.L., Bordighera, 1992, pp. 93 e 100 - differiscono tra loro di ben 7° nell'orientamento degli assi cardinali.
Altro errore fondamentale, spesso commesso dagli archeoastronomi di formazione astronomica è la carente documantazione archeologica. Per esempio, nell'articolo di A. Gaspani "La necropoli del Priamar", pubblicato in L'Astronomia n. 192, 11/1998, si dice che Vada Sabatia fu chiamata Julia Augusta nel 12 a.C. In realtà la città conservò sempre il suo nome originario e Julia Augusta fu il nome della strada, fatta costruire da Ottaviano Augusto nel 13/12 a.C., che congiungeva Roma con Caemenelum (Nizza) in 619 miglia, passando per Dertona (Tortona) e Vada Sabatia (Vado Ligure).
Sarebbe opportuno uno studio dettagliato degli errori più frequenti, al preciso scopo di mettere in guardia i futuri autori e di meglio codificare la disciplina.

D) Conclusione.

L'archeoastronomia necessita inderogabilmente dell'applicazione rigorosa dei metodi propri sia dell'astronomia che dell'archeologia.
Troppo spesso essa viene affrontata quasi dal solo punto di vista dell'astronomia pura o della "storia dell'astronomia".
Per lo storico dell'astronomia le paleo-osservazioni astronomiche sono una fase molto precoce che anticipa di alcuni millenni l'astronomia dei babilonesi, degli Egiziani, dei Greci, ecc. ed è vista nel quadro complessivo dello sviluppo di questa disciplina.
Ma per l'archeologo esse sono veri e propri reperti di cultura materiale e, come tali, se opportunamente indagati, concorrono allo studio ed ai tentativi di comprensione delle società che le hanno effettuate.
L'archeoastronomia non può più, quindi, essere condotta dai soli astronomi, né può più essere ignorata dagli archeologi. Occorre una sinergia d'azione tra le due discipline e, possibilmente, anche un apprendimento reciproco di conoscenze scientifiche tra le due categorie di esperti, generalmente assai distanti tra loro per formazione culturale.
Cordiali saluti

Mario Codebò

(membro dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri)


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